giovedì 25 giugno 2009

Il Senso del Dolore

Mi sono chiesta tante volte cosa mai mi affascinasse tanto nel mito di Keiron, il centauro Chirone, la radice del cui nome significa “mano”… egli, immortale, ferito da un dardo avvelenato il cui veleno impediva la guarigione della lesione e costretto pertanto a vivere nel dolore costante, ogni giorno, dopo essersi preso cura di sé e della propria ferita, metteva se stesso, il suo impegno e il suo tempo a servizio di quella parte di umanità che voleva apprendere da lui le arti della guarigione, coltivando la compassione innanzitutto… In questo mito, forse, pur essendo il centauro umano solo in parte, ritrovo l’essenza stessa del contatto umano profondo… Umanità è anche accettare la sofferenza, e imparare a contenerla senza temerla. Riconoscere che quella sofferenza a volte ci accomuna, ci consente di accrescere la sensibilità al “dentro”, che è l’unica cosa che ci fa davvero capaci di compassione, davvero capaci di comprenderci gli uni gli altri, senza dover fingere di farlo per “creare” contatto o spunti di conversazione. Sì, la sofferenza ha un senso, o forse è un senso, il "numero zero", che nasce ancor prima degli altri alla nascita, e spesso è l’unico che ci fa sentire che “ci siamo”. Il bello è poterci stare, col dolore e, standoci dentro, o insieme, scoprire di poter andare oltre, senza più bisogno di coprirlo o nasconderlo per farsi grandi, superiori… senza più negarlo, anestetizzandoci.

È inutile voler portare qualcuno là dove non sente ancora l’esigenza di andare. Il valore del rispetto, ultimamente, forse l’ho riscoperto così, attraverso l’accettazione del mio stesso dolore… Ho sofferto, comprendendo quanto a volte sono stata precipitosa nel voler soccorrere prima ancora che mi fosse chiesto aiuto. Mi sono lasciata trascinare dalla mia stessa empatia e ho voluto portare ad altri qualcosa che non era, al momento, richiesto, anticipando l’emergere della consapevolezza stessa del bisogno. E quando, per quanto in buona fede, non si rispettano i tempi altrui, inevitabilmente si lede anche il rispetto di se stessi per quanto ci si espone al rischio di venire aggrediti o, almeno, fraintesi. Perché ciascuno di noi erige le proprie barriere a protezione del dolore, ed è inutile forzare l’altro ad abbassare gli scudi per evitargli altro dolore… Sì, perché a volte poi il dolore rende prigionieri delle difese che scaturiscono di fronte ad esso, e l’auto-anestesia, lì per lì salutare nel primo momento di reazione, previene poi la guarigione della ferita in profondità.

Di fronte al mio stesso dolore, scopro che i miei bisogni, ancora una volta, sono stati la porta che mi ha condotta a soffrire. Il bisogno di rendermi e sentirmi utile, quel bisogno di colmare i vuoti, di fornire sostegno, di contenere e tenere insieme, di lenire il dolore altrui a ogni costo, quasi a voler presuntuosamente ripristinare un ordine, un’armonia, prima del tempo. Ho riscoperto, dolorosamente, quanto anche il vuoto ha un senso, quanto anche il dolore è utile e sia utile stare con quel dolore, per poterlo lasciare o per andare oltre.
Non ci sono scorciatoie per andare nei luoghi che contano, e non si può fare la strada per gli altri. Gli uncini del mio ego, del mio bisogno di riconoscimento, di essere io considerata utile, ora sono spianati a forza, o tagliati come si tagliano le unghie, che troppo lunghe si ricurvano e finiscono per ferire. Niente unghie adesso. Niente per aggrapparsi. Niente a cui appigliarsi, soprattutto quando l’appiglio è costituito dall’illusione di poter risolvere in assoluto ogni cosa accedendo a cosiddetti stati di trance. E che gli stati di trance siano evocati sapientemente dal linguaggio ipnotico, senza far ricorso a sostanze dall’esterno, poco importa. Se è vero che viviamo in una trance continua, se è vero che lo stato di trance può essere utile per facilitare a sua volta l'accesso alle risorse inconsce, è vero anche che abusare di questo termine, dei suoi significati sfumati e delle conseguenze che la trance usata per dar corpo alle illusioni implica, può creare scompensi…
Quindi sì all'equilibrio e alla moderazione... e niente più tributi, da parte mia, alla esaltata ed esaltante sovrapproduzione impropria di endorfine & Co., di quella droga interna che poi richiede continua esaltazione per generare neurotrasmettitori che ubriacano quanto gli allucinogeni (quelli che produciamo naturalmente bastano, non abbiamo bisogno di diventare trance-dipendenti per fingere di stare meglio di come ci sentiamo). “Basta volere”…e subito eccoci qua, signori e signore, alla fiera dello stato desiderato. Imbottiamoci di endorfine e fantasie, diamo potere alla mente senza cuore o ben travestita, alla volontà ad oltranza che dimentica la propria appartenenza a un ordine maggiore e più sano e saggio… Promuoviamo pure la nostra assuefazione a stati autoprodotti che ci rendono dipendenti dalla felicità… sì, perché poi se ne cercano altri di quegli stati, per sentirsi sempre più su… e alla fine si scopre che è pur sempre come pagare un pusher…illudendosi che “non possa nuocerci” quella droga interna, perché tanto è “roba nostra”… La fiera della vanità e della felicità a ogni costo, fasulla magari, purché ci distolga dal dolore e dalla nostra condizione di creature ahinoi così tanto, tanto relative e, alla fin fine, a volte impotenti.

Il corpo insegna, sempre. Non si sopprime il dolore, fisico o emotivo che sia, nemmeno quando ci si anestetizza. Si sopprime solo la nostra percezione, la nostra consapevolezza del dolore, ma la carne comunque soffre, e ce ne manifesterà le conseguenze. E che l’anestetico sia un farmaco o che sia un’illusione creata dalla mente, al corpo non fa differenza. Soffre comunque, silenziosamente, al di sotto della soglia della nostra consapevole percezione, e poi ne porta i segni, si contrae e si ritrae... È crudele rimandare un processo che cresce e cresce nel tempo, e più viene rimandato più ci lascia segni. Perché anestetizzare e negare il dolore a oltranza può esser come alimentarlo di nascosto.
A volte il dolore è davvero insopportabile, e non resta altra via che diluirlo, stemperarlo, potendolo compassionevolmente alleviare. Ma occorre tener presente che, nella maggior parte dei casi, è solo un rimandarlo, e presto o tardi quel dolore chiederà di essere rivisitato e rilasciato, per renderci liberi davvero. Occorre sapere che la soppressione del dolore ha un prezzo, e non sempre è prevedibile il modo attraverso il quale giungeremo a pagarlo. Dovremmo almeno sapere, soprattutto nei momenti di sofferenza emotiva, che è quasi crudele ostinarsi a negare quel dolore, o a ricoprirlo d’altro pur di scacciarlo via anzitempo, pur di cancellarlo dalla nostra visuale percettiva… crudele perché non fa che rimandarne e accrescerne le conseguenze esponendoci a un dolore ancor più grande…come sopprimere il sintomo anziché comprenderne o trasformarne la causa, incrementando nel frattempo l’estendersi della ferita… crudele anche se comprensibile, perché spesso il dolore davvero ci fa sentire impotenti. E forse per qualcuno è meglio sentirsi onnipotenti piuttosto che impotenti…forse, finché non ci si affida, finché non ci si arrende. Il potere della resa è ineguagliabile e supera ogni anestesia emozionale, ogni strategia e ogni creazione della mente. La resa alla Natura, chiamala così se vuoi, piuttosto che Dio, piuttosto che Ordine Universale, o Legge di Equilibrio… perché la Natura ha le sue leggi, che costituiscono l’umana architettura (sarà per quello che si dice che Dio creò l’uomo a propria immagine…)… E quando ci si arrende a quello che si è, e che si sente, che si prova senza mentire, allora la luce fa la sua irruzione nella nostra vita benedetta, e ci riscalda il cuore, e ci fa percepire un nuovo senso di esistere al di là delle apparenze. Allora finalmente ci permettiamo di essere noi stessi senza bisogno di farci qualcun altro, o qualcos’altro, da ciò che siamo. Allora compare la nostra essenza vera e reale, e regale.

Forse ci sono persone nelle quali un giorno il dolore è stato così grande da generare un ancor più grande rifiuto… da generare la grande, seduttiva illusione di poter ottenere qualunque cosa che basta volere… per ritrovarsi prigionieri di un mondo artefatto, di un castello di carte e cartapesta, di illusioni vuote e ingannevoli senza più meraviglia pur di non guardare alla realtà in cui ci si è sentiti soli, quella realtà percepita cruda e crudele, che non risparmia. Già, ci vuole forza, e anche coraggio, per poterci stare, col dolore. Ma forse quando si è bambini, dentro o d’età, forse quel dolore è troppo grande, e appare insormontabile…e allora si soccombe, cedendo al senso di annientamento. Allora, magari, è meglio farsi, o pensarsi, onnipotenti, e credere alla propria onnipotenza con tale convinzione da coinvolgere altri e farli sudditi. Per sentirsi meno soli.

A volte si perde il senso della realtà condivisa, e ci si distacca da tutti costruendo i propri sogni e trincerandosi nella propria torre d’avorio, perdendo anche il senso dell’amore che ci lega inevitabilmente gli uni agli altri quando si riconosce che tutto è Uno…a volte si perde il senso della propria responsabilità e ci si sente vittime di ciò che da soli si è generato, trovando magari un capro espiatorio a ogni costo. Altre volte invece si riesce a vedere il tesoro nascosto dietro e dentro ogni prova e ogni dolore, e allora ci si libera davvero da ogni dolore residuo, nella resa a quell’Ordine meraviglioso, a quel Flusso che ci porta sempre là dove siamo destinati…perché là siamo felici davvero, oltre la nostra volontà razionale, oltre il misero tentativo di supremazia dell’ego, oltre ogni capacità di immaginare… allineati con la nostra Natura più vera e profonda, così celata in noi da aver quasi paura di svelarla a noi stessi e al mondo, da mascherarla con altro che mai ne uguaglierà la bellezza originale… finché diverremo curiosi e coraggiosi abbastanza per sostenerne la meraviglia e l’unicità… e là potremo scoprire che la compassione sostiene l’attesa, e potremo aspettare fiduciosi il momento in cui ogni equilibrio verrà ripristinato, il momento in cui ogni ferità verrà riconosciuta già guarita, essendo stata il mezzo stesso attraverso il quale siamo giunti a scoprire chi siamo…

3 commenti:

  1. lettera di un poeta cinese "...Il viandante si rende conto delle difficoltà del suo cammino solo quando le sue tibie e le sue caviglie vengono lacerate dalle spine. Ma perchè, in primo luogo, ci sono le spine? Crescono spontanee, oppure vengono deliberatamente piantate da qualcun altro? Vengono forse piantate dallo stesso viandante? In ogni caso, non si può attribuire la colpa unicamente alle spine, perchè quella è la strada che tu stesso hai scelto di percorrere, e le ferite non sono che la conseguenza dell'aver camminato sulle spine, esse non si mettono sulla tua strada di propria iniziativa..."

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  3. ...e in effetti, prescindendo dalle rose e dalle spine, è vero che ciò che incontriamo sul cammino ci parla della nostra responsabilità...quella di aver iniziato a camminare...

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