domenica 28 marzo 2010

Storie di Primavera: la Fata che aspirava al Sole

La Fata viveva felice in un posto incantato. La natura rigogliosa dai colori sgargianti e dai profumi inebrianti rigenerava l’anima e i corpi delle creature che avevano la fortuna di abitare in quel luogo carico di magia. Lei aveva ali ampie e cangianti, e la sua pelle sottile, morbida e diafana, rifletteva i bagliori ora dorati, ora argentei, degli astri che si alternavano in un cielo profondo e sempre limpido. Con le altre della sua specie passava molto tempo a giocare gioiosa tra le acque spumeggianti di ruscelli e cascate per le quali aveva una predilezione, e si dedicava con paziente impegno a controllare la crescita dei fiori e delle piante, avendo cura che l’energia dell’ambiente circostante provvedesse al loro nutrimento. Armonizzava, nell’etere di cui era parte, il nutrimento che proveniva dal Cielo, sotto forma di luce e calore solare, con quello che scaturiva dalla Terra, e lavorava alacremente per eliminare ogni forma di limitazione, impedimento o distorsione che potesse anche solo per un momento alterare gli equilibri e indebolire la flora cui si dedicava. Osservava e preservava l’equilibrio tra gli elementi della Natura, operando per fornire supporto e sostegno alla Vita e, ovviamente, per dispensare amore e guarigione, come fanno tutte le Fate.
Spesso le capitava, creatura in parte eterea e incorporea, in parte quasi solida e tangibile com’era, di intrattenersi con creature più dense, forme di vita animale, e addirittura aveva incontrato qualche essere umano particolarmente puro di cuore, di quelli che sanno vedere oltre il visibile comunemente inteso tra gli umani. Con gli animali era più facile intrattenersi, rispetto agli umani. Gli animali non avevano pregiudizi, e lei poteva facilmente avvicinarsi loro e prendersene cura nel momento in cui necessitavano di aiuto e supporto.

Come tutte quelle della sua specie, nei momenti di spensieratezza la Fata amava danzare e intrattenersi in compagnia dei Fatui, dei Fauni gaudenti e passionali, e di qualche Centauro tra i meno solitari. Tutti insieme si ritrovavano e celebravano la Vita in quei cadenzati riti d’amore che scandivano il susseguirsi delle stagioni nel tempo che scorre sulla Terra, e questo la faceva sentire ancor più viva in quei momenti, viva e partecipe di un equilibrio sacro in cui tutto era Uno…
Eppure c’era qualcosa che turbava, dapprima sporadicamente, poi sempre più frequentemente, la sua felicità. Un bel giorno, anziché mantenere come sempre il suo sguardo amorevole e protettivo sulla superficie della Terra, aveva iniziato a guardare il cielo. E da quando aveva iniziato a farlo, le sembrava di avere iniziato a perdersi. Si perdeva a inseguire con lo sguardo il cammino degli astri, e di giorno desiderava tuffarsi nel calore e nella luce del sole, e di notte si sentiva divorare dall’ardente desiderio di smarrirsi e ritrovarsi tra le stelle…E si perdeva nel seguire con gli occhi le evoluzioni di creature leggere e leggiadre come l’aria stessa….quegli Elfi che la Natura aveva creato più sottili ed eterei di quanto lei non fosse… quei Geni cui la Natura aveva donato una brillantezza solare, carica di elettricità frizzante e luminosa, così veloci che a stento si riusciva a star dietro alle loro mutevoli e imprevedibili traiettorie…
Quelle erano le Creature che più ammirava e dalle quali era fatalmente attratta, e rimpiangeva che il suo corpo, le sue ali, la sua natura stessa non le permettessero di avvicinarsi ad essi più di tanto… e perché, poi? Chi o cosa glielo impediva, in fondo in fondo? Solo la paura di volare troppo in alto e di cadere malamente…o di bruciarsi le ali. Decise quindi di tentare, di provare, di osare un avvicinamento. Ogni giorno si spingeva più in alto col suo volo, e un poco più lontano dalla radura dove aveva casa e compagnia, e dove solitamente operava. Le sue ali e il suo corpo, già sottili, le gravavano tanto da rallentarla in ogni tentativo di approccio. Una tra le Creature di luce che inseguiva le sembrava più raggiungibile delle altre, le sembrava a volte rallentare e guardare indietro, in basso, verso di lei…forse perché si incuriosiva vedendola ogni giorno sfidare le leggi e le convinzioni che la trattenevano così vicina alla Terra. Ogni tanto le sembrava che questa Creatura aerea, luminosa ed elettrica si lasciasse avvicinare, e questo le dava coraggio e voglia di sfidare sempre più il limite della sua stessa natura. Ma c’era un prezzo che, giorno dopo giorno, la Fata pagava senza nemmeno accorgersene. Ogni giorno gli sforzi e la vicinanza stessa con il Sole e con le Creature che inseguiva verso esso le piagavano il corpo diafano e le bruciavano la pelle e le ali. Lei amava il Sole cosi tanto, e amava le stelle così tanto, e così tanto amava le Creature dell’aria che si libravano nei raggi di Luce…lei, creatura di terra e di acqua, ora innamorata del fuoco caldo dell’astro diurno, della fiamma elettrizzante dei Geni che abitavano l’aria sottile e sembravano rigenerarsi bagnandosi nei raggi del Sole più rovente…lei, pur di raggiungerli, avrebbe consumato il suo corpo e la sua vita, perché da quando aveva iniziato a percepire altro, al di fuori del suo mondo incantato, rassicurante e avvolgente, aveva iniziato a sentirsi morire. O forse si sentiva morire ogni volta che, stremata dopo l’ennesimo volo, le toccava posarsi a terra e riposarsi, per riprendersi dall’aver osato tanto. Le Creature, i Geni che amava e inseguiva, non si posavano mai. Sempre in movimento come l’aria stessa…un moto incessante come il respiro, come il viaggiare stesso della luce….così belli e luminosi erano, quando danzavano verso il Sole…così leggeri…e mai le veniva in mente che forse avrebbero potuto manifestare verso di lei un poco più di amorevolezza, prendendola per mano e accompagnandola in quei voli, nelle profondità celesti per lei abissali…Qualcuna delle sue compagne, da terra, nel vederla consumarsi così insinuava che le Creature d’aria e di luce fossero in realtà spietate e senza cuore…come potevano accettare che la Fata si torturasse così? Eppure lei non poteva fare altro che seguire l’ordine potente che scaturiva dal suo cuore come una voce imperiosa che le intimava, nonostante il dolore, di continuare a sfidare i suoi limiti e il buonsenso di cui Madre Natura l’aveva dotata, all’inseguimento di un sogno impossibile.

E così, incurante sia della propria sofferenza sia della morbida compassione e delle obiezioni con cui le sue simili e i suoi compagni di giochi di un tempo tentavano invano di contenerla, un giorno la Fata decise che non sarebbe più tornata sulla Terra, non si sarebbe più posata o riposata…si sarebbe lasciata cadere, piuttosto, nello sforzo di raggiungere le altezze in cui le Creature amate si libravano e intrecciavano danze sottili nel chiarore diurno del Sole e notturno delle stelle.
E incominciò a salire, sempre di più, sempre di più nel bagliore sfolgorante del giorno, inseguendo i raggi del Sole per giungere alla fonte della luce stessa, inseguendo stremata il Genio brillante che ora non sembrava più nemmeno accorgersi di lei…e mentre saliva si sentiva sempre più attratta e sempre più consumata nel bruciare della sua pelle e delle sue ali, e nello stesso tempo sentiva che il suo cuore di Fata spossato diventava leggero, incurante della sua propria sorte…e il Sole era così bello e ridente, sembrava la fonte stessa delle Creature di luce che a frotte, incuranti di lei, salivano e scendevano come scintille vorticando velocissime nei suoi raggi…e lei non desiderava altro più che estinguersi in quella Fonte, lasciandosi consumare e finire per quanto ormai le era insopportabile il peso di quello che era stato il leggiadro corpo di una Fata… e salì, e salì ancora, sempre di più con uno sforzo immane, fino a che si sentì come avvampare in un turbine di fuoco, e poi percepì il suo misero e sfinito corpo esplodere in un dolore lancinante e una miriade tintinnante di frammenti d’etere…l’ultimo pensiero, in quella forma, fu che il Sole era ancora così lontano, e lei nemmeno era riuscita a sfiorare la Creatura che tanto aveva inseguito…

Poi si sorprese a scoprire che il dolore era cessato, e c’era solo più una leggerezza gioiosa e inebriante d’estasi…e lei stava salendo ancora, senza più sforzo, trasportata da una corrente di Luce purissima della quale faceva parte… luminosa, brillante, perfetta come una piccola stella, come una scintilla di quel Sole che troneggiava nelle profondità celesti e sfiorava amorevole la Terra col suo respiro caldo e carezzevole...e proprio attraverso un raggio di Sole, danzando e vorticando in esso, si scoprì ormai essere parte di quella Luce che tanto aveva inseguito…messaggera e portatrice di Vita, luce e calore rigenerante…dal Cielo alla Terra.

giovedì 18 febbraio 2010

Il Viaggio

C’era una volta un nobile Cavaliere che viveva in un magnifico castello, in un regno prospero, fiorente e tanto vasto di cui nessuno conosceva i confini per quanto lontano ci si potesse spingere.
Il Cavaliere, da tutti molto amato e rispettato, aveva un’armatura, una meravigliosa e bellissima armatura fatta di un metallo straordinariamente resistente che lo proteggeva da qualunque attacco nemico e lo riparava da qualsiasi pericolo potesse sopraggiungere. L’armatura era così bella, così magicamente sottile, liscia e lucida che lasciava trasparire le sembianze del bel Cavaliere, e intanto rifletteva con bagliori argentei e lunari ogni raggio di luce che incontrava la sua superficie. E, meraviglia delle meraviglie, era così leggera e flessibile l’armatura, quasi impalpabile, che al Cavaliere non sembrava nemmeno di averla indosso, tanto lo lasciava libero in ogni movimento desiderasse compiere.
Così il Cavaliere viveva, circondato dagli agi di una vita di corte allegra, prospera e serena, e non mancava certo di divertirsi e di fruire di ogni ricchezza e piacere che gli veniva concesso. Era così affascinante il Cavaliere nella sua splendida armatura, così ammirato e conteso sia dagli amici che lo cercavano per la piacevolezza della sua compagnia, sia dalle dame che, attratte dal mistero della sua impenetrabilità, gli offrivano le loro grazie senza indugi… eppure non era completamente felice. O meglio, in lui il senso di felicità, ogni volta che sembrava emergere, si trasformava invariabilmente in una sorta di strana e struggente malinconia che gli stringeva il cuore e gli appannava lo sguardo… si sentiva come se gli mancasse qualcosa.

Allora si guardava allo specchio, vedeva se stesso nella bella armatura e si accorgeva che, per quanto l’armatura fosse magicamente leggera e quasi trasparente…eh sì, quel “quasi” era di troppo… non gli permetteva di vedere, di sentire, di toccare completamente, come lui avrebbe voluto. Si rendeva conto, in quei momenti, che non si era mai visto in viso veramente. Nessuno lo aveva mai visto. L’armatura che lo proteggeva era come un velo resistente, sottile, ma pur sempre un velo che lo separava dal mondo. Per quanto sembrasse leggera, era fredda, l’armatura, e in quei momenti gli pesava sul cuore, e il Cavaliere avrebbe voluto togliersela di dosso almeno ogni tanto per sperimentare appieno il calore del sole o di un tocco che riscaldasse e penetrasse la sua anima.
Sfortunatamente, l’armatura pareva bene assicurata intorno al corpo del Cavaliere da una serie di serrature, e il Cavaliere non ricordava dove fosse la chiave che le apriva… sempre che esistesse, quella chiave. Perché, in effetti, per quanto il Cavaliere si sforzasse di ricordare il momento in cui aveva indossato l’armatura, quel momento gli sfuggiva… proprio come se l’avesse avuta indosso da sempre. Andando indietro con la memoria, infatti, il Cavaliere si rendeva conto che in tutti i suoi ricordi l’armatura che portava era presente, come una seconda pelle. Sembrava quasi che l’armatura fosse nata e cresciuta con lui, confinandolo a una sorta di limbo, un riflesso ovattato della vita reale. La cosa che più lo inquietava era che nessuno potesse aiutarlo, perché per quanto chiedesse a destra e a manca, nessuno pareva saperne più di lui sull’argomento… anzi, pareva proprio che nessuno capisse a cosa lui si riferiva quando parlava della sua armatura… né tanto meno se ne trovava la chiave.
Da qualche tempo, inoltre, il Cavaliere si era reso conto che l’armatura non gli era poi così indispensabile. Di fatto abitava in un luogo pacifico, era circondato da persone serene, di conflitti o guerre neanche l’ombra, nemmeno ai confini del regno…e allora perché proteggersi tanto? Finalmente il Cavaliere decise di consultare il Saggio che viveva nella torre più alta del castello, un Mago che pareva conoscere la risposta a tutte le domande. E quando il Mago lo accolse, il Cavaliere gli chiese se per caso conoscesse il segreto della sua armatura, che senso avesse e, soprattutto, cosa doveva fare per liberarsene.
Il Mago lo guardò a lungo con fare enigmatico, come soppesando ogni parola che gli passava per la mente, dicendo infine:
“Figliolo, solo a te è dato conoscere il mistero della tua armatura, e io non posso far nulla se non dirti: trova la chiave che l’apre! Spingi te stesso oltre i confini di ciò che già conosci e abbi il coraggio di guardare al di là di ciò che già vedi. Come hai compreso, l’armatura racchiude un segreto, e nasconde e protegge una realtà più profonda e vera di quella che tu puoi immaginare. Nessuno può compiere il viaggio al posto tuo: tua è l’armatura, tuo è il cammino per svelarne il senso. Non posso dirti di più, se non: va’ e non tornare finché non avrai scoperto l’enigma arcano che si cela nella tua straordinaria armatura, perché solo allora troverai la felicità…”
Allora il Cavaliere decise di mettersi in viaggio, lasciandosi alle spalle corte, cortigiani e castello, agi e piaceri mondani, alla ricerca della chiave che avrebbe potuto liberarlo da quell’armatura, e di qualcosa che potesse renderlo veramente felice.
Vagando per monti e per valli il Cavaliere incontrò tante persone e tante creature ordinarie e straordinarie a cui chiedere indizi e aiuti per trovare la chiave che cercava. Si spinse nei regni fatati, si inoltrò nelle viscere della terra, ebbe accesso a dimensioni insolite popolate da esseri a volte inquietanti, pieni di conoscenza. Poiché il Cavaliere aveva bei modi ed era sincero nella sua ricerca, chi lo incontrava gli dava ascolto e sembrava sinceramente desideroso di aiutarlo… ma, invariabilmente, nessuno poteva essergli d’aiuto. E in lui aumentava sempre più il senso di malinconia.
Ormai stanco e rassegnato, sempre più prigioniero dell’armatura che lo proteggeva da pericoli che si rivelavano sempre più inesistenti, il Cavaliere giunse sulle rive di un Lago, circondato da alte e innevate montagne che sembravano poste a guardia della sua vasta quiete. Calmo e limpido, il Lago riempiva l’anima di pace, una pace appagante che generava serenità e pienezza. Un meraviglioso Castello sorgeva, isolato e solitario, tra le acque profonde e cristalline, al centro del Lago. Pareva fatto di pura luce cangiante, tanto spiccava nella distesa d’acqua. Il Cavaliere era molto stupito, poiché non v’erano strade, né ponti che sembrassero congiungere il Castello alla riva… e nemmeno vedeva imbarcazioni, o punti di attracco. Rimase lì, muto, a contemplare il bellissimo e straordinario Castello che svettava con le sue torri candide: un’immagine che, non sapeva perché, lo commuoveva profondamente e lo faceva sentire ancora più malinconico di sempre.

Scese la notte, e il Cavaliere non sapeva distogliersi dalla vista del Castello nel Lago. Vi si sentiva irresistibilmente attratto e non aveva idea di come raggiungerlo…temeva che l’armatura, per quanto leggera, potesse trascinarlo a fondo condannandolo a una morte gelida, oscura e inevitabile, e a quel pensiero rabbrividiva dal profondo, perché se c’era qualcosa di cui aveva sempre avuto paura, quella cosa era proprio l’Acqua.
Finalmente si addormentò, lasciandosi trasportare dai suoi pensieri in un sonno profondo e rigenerante. E sognò, il Cavaliere. Sognò di svegliarsi improvvisamente al tocco di una mano delicata che gli sfiorava l’armatura sul viso. Era un tocco di cui poteva intuire e immaginare il calore oltre la copertura che lo proteggeva e lo riparava… da cosa?... Si sentiva confuso mentre, levando lo sguardo, percepiva la presenza di una figura femminile, una bellissima Dama china su di lui. La Dama non parlò se non con il suo sguardo intenso e con un gesto che invitava il Cavaliere verso il Castello…
Il Cavaliere, non vedendo imbarcazioni, fece appena in tempo a chiedersi come avesse potuto attraversare le acque del Lago… Poi tutto si dissolse, e il Cavaliere si svegliò… davvero questa volta… forse
Era l’alba, e il Cavaliere si chiedeva se avesse sognato o meno, o se stesse ancora sognando... Trascorse l’intera giornata contemplando il Castello nel Lago, rivedendo e immaginando ad occhi aperti la Dama che aveva visto in sogno.
Sopraggiunse la notte, e il Cavaliere, incurante della fame e del freddo che cominciava a farsi sentire, finalmente si addormentò. Ancora una volta, gli parve di svegliarsi a quel tocco capace di destarlo, riemergendo dal limbo in cui si trovava tra veglia e sonno…De ancora una volta lei era là, bellissima e regale… e il Cavaliere divenne in un lampo consapevole di trovarsi di fronte non a una nobile Dama, bensì alla Regina stessa del Castello sul Lago, che con un gesto invitante lo induceva a seguirla verso il Castello… come? Come avrebbero attraversato le acque che li separavano dal Castello, si chiese il Cavaliere? E come lui, semplice Cavaliere, poteva aspirare al cuore di una Regina? E a quelle mute domande, ancora una volta, tutto prese a dissolversi e il Cavaliere si ritrovò amaramente solo, a riflettere sull’accaduto mentre la sua armatura rifletteva l’immagine del Castello che si specchiava nel Lago…

Ancora una volta il sole sorgeva, e il Cavaliere lasciava trascorrere un’altra giornata contemplando il Castello nel Lago, mentre aspettava la notte… In quel momento, l’unica cosa che gli appariva chiara era che sarebbe potuto entrare nel Castello solo una volta libero dall’armatura che lo isolava e gli attanagliava le carni. Mai aveva desiderato così tanto di esser libero da quell’armatura, compagna di vita cresciuta con lui. Quello e quello solo era il suo desiderio, il desiderio d’esser libero da difese e protezioni che avevano fatto di lui un essere solo, separato, isolato dal mondo, quel mondo che gli si presentava per la prima volta attraverso la vista del Lago e del Castello, quel mondo del quale la Regina lo attirava e invitava a sé… Il Cavaliere voleva seguire la Regina nel Castello, quello era il prepotente desiderio che gli ardeva nel petto e che sembrava consumargli le pareti del cuore. Mai prima d’ora aveva provato nulla di tanto intenso, così intenso da rasentare il dolore. E l’armatura non poteva proteggerlo dal dolore di quella separazione. Né tanto meno dall’acqua che tanto temeva…
Ancora una volta giunse la notte ad accoglierlo, e il Cavaliere si lasciò scivolare in quello stato in cui la coscienza diradava i suoi appigli e si espandeva oltre i confini del giudizio…
E finalmente la Regina lo risvegliò toccandolo, ancora una volta, e ancora una volta con un cenno gli mostrò la distesa d’Acqua, unica via verso il Castello, mentre l’altra sua mano si distendeva verso di lui. E questa volta il Cavaliere, senza farsi domande, la seguì, nonostante di fronte a lui non vi fosse altra strada visibile che l’Acqua.

E si svegliò ancora una volta il Cavaliere, e questa volta era l’alba, e lui era lì, nell’Acqua che lo avvolgeva penetrando e dissolvendo ogni difesa e protezione… e si sentiva sciogliere il cuore da quanto l’Acqua era così dolcemente e piacevolmente accogliente, calda e rigenerante… Si abbandonò, il Cavaliere, e si svegliò ancora… dal sogno nel sogno… e risvegliandosi comprese in quell’istante presente che fino ad allora aveva sempre e solo dormito, e la sua vita non era stata nient’altro che un sogno… e quello che sembrava un sogno era la vita vera, reale, Reale, che attendeva da sempre il suo risveglio. E come svaniva l’aspetto oscuro e inquietante dell’acqua, lasciando spazio a una Via chiara e diretta per il Castello e per il centro del suo cuore, così era svanita l’armatura che, forse… forse non era mai esistita.
Ora il Cavaliere vedeva il suo volto vero, Reale, senza veli, felicemente riflesso nelle Acque terse e limpide del Lago.

lunedì 1 febbraio 2010

Ieri, 31 gennaio, in serata ho guidato una meditazione dedicata alla purificazione, all’integrazione, alla guarigione, nel rispetto di alcune antiche tradizioni comuni a differenti culture. Come sempre, non sapevo esattamente cosa avrei fatto, di cosa avrei parlato... Ho solo scelto alcuni brani di musica da utilizzare nel movimento, seguendo un’ispirazione che mi parlava di risvegliare il corpo da terra a cielo, riempirlo di respiro e di luce, e poi scuotere via ciò di cui ci si voleva ripulire e liberare, per concedersi infine l’ascolto del ritmo del cuore e una pioggia di luce guaritrice da cielo a terra… E quel che segue è la riflessione - frutto di ciò che quel momento di condivisione (eravamo una quindicina...) ci ha regalato...

Integro... significa insieme puro e completo.
Integrare significa compiere i passi per tornare all’integrità, a una purezza originaria e a una completezza intrinseca della quale non siamo ancora consapevoli, non fino a che non l’abbiamo sperimentata… perché è inutile avere a disposizione un palazzo di 30 meravigliose stanza per vivere, se ci limitiamo ad abitarne 4 o 5… allora integrare significa prendere atto di avere 30 stanze, visitarle una per una, aprirne porte e finestre per fare circolare aria, luce, calore… e renderle accoglienti, piacevoli da vivere… e comprenderne l’uso che ci si può fare di esse, e utilizzarle di conseguenza…

Così integriamo: conoscendo noi stessi, riconoscendo quanto è parte di noi, recuperandone consapevolezza, e divenendo presenti a ciò che siamo… riconnettendoci con la nostra Natura Reale, con ciò che già realmente siamo senza ancora saperlo, finché non ne facciamo esperienza…
E la purificazione è come il momento in cui si decide di aprire la porta di accesso a una di quelle stanze precluse da dolore o paura… perché spesso le stanze ci servono da ripostiglio, ci immagazziniamo dentro quei dolori che quando si presentano ci sembrano troppo grandi, troppo pesanti, troppo ingombranti per essere accolti e accettati… e allora ci illudiamo di poterli nascondere per sempre ai nostri occhi e li chiudiamo dietro una qualche porta che pensiamo di poter sbarrare, e così facendo alla fine ce li imprigioniamo dentro… così facendo non li lasciamo andare, alla fine… perché il dolore è un ospite pur sempre passeggero, quando abbiamo la pazienza e il coraggio di affrontarlo… ma a volte possiamo concederci di tenerlo sotto chiave per un po’, finché avremo l’impressione di poterne sostenere la presenza… Dobbiamo solo ricordarci di aprire la porta per lasciarlo andare, quando avrà fatto il suo lavoro… perché, alla fine, scopriremo che avrà dato un senso all’esistenza della casa medesima… la nostra esistenza…
Perché altrimenti il dolore, celato e imprigionato pur d’essere nascosto alla vista e al sentire, finirà col farci dimenticare le stanze stesse in cui è rinchiuso… e noi ci precluderemo di vivere appieno… e il palazzo, il corpo stesso, inizierà a manifestare i primi segni di cedimento...
Dove non c’è presenza, dove non c’è consapevolezza, non c’è comunicazione. Non c’è scambio. Non c’è vita. E il nostro corpo, dove il dolore è imprigionato, si deforma pur di contenerlo… ma non c’è alternativa, se si vuol lasciare scorrere il flusso della Vita: bisogna aprire quelle porte, liberarlo, trovando prima quella forza, quel coraggio, quelle risorse interne ed esterne che ci permettono di lasciarlo uscire, di guardarlo senza paura, di lasciarlo passare attraverso di noi… e osservarlo, mentre se ne va….

Così avremo liberato quegli spazi, quelle stanze nel nostro essere, e potremo riappropriarcene, e ripulirle, e goderne, e gioirne… Integri, completi, guariti
Perché le forze della guarigione non sono altro che le Forze stesse della Natura…perché la Natura, quando è lasciata fare, tende a ripristinare naturalmente ogni Equilibrio… tende all’Armonia, al rispetto di un Ordine che vede alternarsi fasi organizzate in ritmi e in cicli dove la anche la distruzione altro non è che la purificazione necessaria alla rinascita e alla riedificazione… Guarire richiede la liberazione da quegli ostacoli, da quelle restrizioni che impediscono alle Forze naturali di circolare liberamente… per portare a compimento l’Opera… che altro non è che il processo stesso di Integrazione…

sabato 9 gennaio 2010

Immagin-azione

Quando mi trovo di fronte a qualcosa che non riesco a comprendere per quanto mi è nuova, o estranea, faccio “come se” potessi comprenderla… IMMAGINO di poterla comprendere, così come quando mi preparo a compiere un movimento nel danzare… Immagino di compierlo, quel movimento...e continuando a immaginare CON TUTTI I MIEI SENSI, con tutta me stessa, “SENTO” che pian piano il movimento si fa strada fino a divenire possibile… Così espando la mia capacità di apprendere, di accogliere… E una volta che l’ho fatto, DECIDO se quella cosa mi serve, se quell’espansione mi è davvero utile. Allora posso selezionare, scegliere, discernere davvero COSA ACCOGLIERE, senza cadere nella trappola dell’esclusione a priori di ciò che si presentava così diverso da quello che mi corrispondeva…